Carlo Terpolilli: Museo, luogo vitale della memoria collettiva
I progetti di Ipostudio, di cui lei fa parte, hanno sempre dimostrato attenzione a una espressiva conformazione dell’architettura, alla precisa definizione degli elementi tipologici, degli spazi collettivi, alla scelta dei materiali e anche alle questioni della socialità e dell’assistenza. L’interpellare lei adesso, riguardo al tema dei musei, dopo l’esperienza svolta con il Museo degli Innocenti di Firenze, ha pertanto lo scopo di raccogliere un’autorevole opinione sul significato che può avere oggi la progettazione di questo tipo di manufatti. Oggi si costruiscono importanti musei con ruoli monumentali, simbolici, socioculturali, che si determinano molto spesso con architetture solo stupefacenti, all’avanguardia per tecnologia, ma dimentiche talvolta del compito evocativo e di recupero delle memorie storiche. Tutti aspetti invece ben considerati nel progetto per il Museo degli Innocenti, ove le soluzioni architettoniche sottolineano egregiamente la missione civile a cui è destinato, sui temi dell’accoglienza e della tutela dell’infanzia. Può pertanto descrivere in questo senso come un museo debba essere inteso per trasmettere eleganza, storia, civiltà, attraverso arte, architettura e tecnologia.
La costruzione di un museo all’interno di una struttura edilizia preesistente e, in particolar modo, all’interno di un edificio storico monumentale com’è l’ Ospedale degli Innocenti, è cosa diversa dalla costruzione di un edificio nuovo concepito sin dall’inizio come tale. Il progetto architettonico, in questo caso, deve interrogarsi costantemente e stabilire un dialogo, a volte anche conflittuale, con l’edificio che lo ospita, sia quando esso è “vivo”, com’è appunto l’Istituto degli Innocenti, ma anche quando l’edificio appare “morto”, quando ci appare come un relitto del passato. Il progetto architettonico è lo strumento della trasformazione della realtà.
Quando trasformiamo un edificio che ci viene dal passato per adeguarlo alle nuove funzioni, quando per farlo, dobbiamo strappare, abbattere, demolire perché questo è necessario per la prosecuzione della vita delle cose, per fare ciò ci vuole rispetto, quel rispetto compassionevole che si ha per le cose a noi care, come Carmelo Bene che leggendo Majakovskij baciava la bandiera rossa e poi la strappava.
Dobbiamo capire e comprendere la natura e le caratteristiche intrinseche del manufatto edilizio e introdurre soluzioni plastiche e funzionali capaci non solo di adeguare l’edificio agli usi correnti, ma anche di rallentare l’entropia inevitabile delle strutture edilizie. Dunque non solo azioni conservative, ma soluzioni architettoniche.
Una struttura edilizia è una miniera: come ogni opera di scavo va analizzata con attenzione la geologia del terreno, perché è sicuramente lì che è nascosto ciò che cerchiamo.
Poi, dobbiamo seguire la vena e a quel punto di-svelare, ciò che è utile alla sua ricomposizione. Detto tutto questo, però, il senso profondo della natura di un museo rimane il medesimo, sia esso totalmente ex-novo o frutto di una ristrutturazione: il ruolo che esso assume come edificio pubblico, all’interno della città e dall’altra ciò che esso è come tipologia edilizia, come struttura spaziale in rapporto alle caratteristiche specifiche di ciò che deve mostrare, conservare e narrare. Un museo, o è un “archivio” della memoria collettiva, o, all’opposto, un corpo vivo in continua evoluzione un luogo di produzione culturale. Un Museo, però, è anche frutto di un’istituzione, il suo successo e il suo ruolo, è il risultato della natura e delle caratteristiche di quella stessa istituzione.
Dopo sei secoli, tesi alla cura e alla tutela dell’infanzia, l’Istituto degli innocenti e il suo Museo non è il luogo dove si conserva solo la memoria, ma è l’espressione più pura di un tentativo di coinvolgere l’arte, con la sua galleria, la storia di questa grande istituzione morale e culturale, lo stesso edificio – ovvero, la fabbrica del “Brunelleschi” – e la storia delle bambine e dei bambini che l’hanno abitato in unicum inscindibile.
Il progetto del Nuovo Museo degli Innocenti di Firenze è risultato vincitore in un concorso, genere di iniziative a cui il vostro studio aderisce frequentemente. A mio parere, i concorsi di architettura sono molto importanti e necessari a rendere qualitativamente rilevante il ruolo della progettazione architettonica. Può descrivere come si è svolta quella esperienza e esporre alcune sue considerazioni sull’istituto del concorso di architettura.
La verità storica sul tema dei concorsi in Italia è purtroppo molto semplice: le classi dirigenti italiane non hanno mai voluto una legislazione a favore dell’uso generalizzato dei concorsi per l’affidamento degli incarichi pubblici di progettazione come, a vario titolo e forme, fanno in Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, Germania, ecc.
A questo istituto si è preferito quello delle gare di servizi, favorendo così le lobby delle società d’ingegneria a scapito del ruolo centrale della figura dell’architetto. Questa è la storia della divisione del lavoro in Italia nell’ambito della progettazione edilizia: troppe figure in competizione tra loro, spesso e volentieri, senza i requisiti. In Europa e non solo, nel Mondo, il Progettista delle strutture edilizie e urbane è l’architetto, senza se e senza ma. Una “legge sull’Architettura” come esiste in Europa, da trent’anni e più, non è stata mai emanata in uno dei paesi più importanti al mondo, modello di civiltà proprio grazie alle sue Istituzioni storiche e alla sua straordinaria architettura.
Pochi sono i casi virtuosi, e uno di questi è stato proprio il concorso internazionale del nuovo museo degli Innocenti e non perché è stato vinto da noi. Virtuoso perché è stata coraggiosa l’idea stessa da parte della committenza di fare un concorso per un’opera così complessa, e poi, per l’assidua partecipazione e il controllo al progetto in tutte le sue fasi da parte di una commissione interna molto qualificata, fatta di esperti museologi, storici dell’arte e del costume.
La proposta per gli Innocenti, relativa a un manufatto monumentale e simbolico, nel suo confrontarsi con una delle più belle epoche architettoniche, doveva essere considerata nel rispetto dei canoni disciplinari del restauro, ma anche delle esigenze di moderna operatività e di innovatività formale. In questo modo la traccia dell’intervento effettuato, senza compromettere i valori storici, con buona evidenza, si distingue dall’impianto originale, ma si lega ad esso con l’armonico intento di celebrarne i pregi e di proporne una rivalutazione funzionale. Secondo quali principi formali e tecnologici Ipostudio affronta il tema del recupero dell’edilizia storica?
Oltre a un atteggiamento culturale chiaro, come appunto il rispetto attraverso l’ascolto, bisogna anche avere delle precise posizioni teoriche sul linguaggio architettonico che usiamo, o che possiamo usare.
Cosa voglio dire; che ciò che produciamo come soluzioni museografiche (allestimento, illuminazione) e manufatti fisici (scale, porte, impianti) deve essere, a mio parere, discreto, ma non mimetico.
Devono essere interventi “leggeri” e non “pesanti”, devono sembrare ma, soprattutto, essere reversibili. Devono, infine, apparire ed essere interventi come logica prosecuzione dell’edificio nella sua “naturale” trasformazione.
Qualche anno fa titolavo un mio articolo sul museo degli innocenti “Oltre il restauro”, riconoscendo al restauro – al corpus teorico normativo che lo sottintende – un ruolo importante all’interno della progettazione architettonica, ma dobbiamo andare oltre.
La conservazione ammette una sola realtà: la cristallizzazione dello status quo. In una parte della cultura contemporanea continua ancora ad aleggiare un famoso monito di Antonio Cederna apparso sul Mondo negli anni ’50 contro la realizzazione, come poi fu del progetto di Frank Lloyd Wright sul Canal Grande: “Nemmeno il Padreterno oggi vi può più costruire” scriveva.
Ad Antonio Cederna va riconosciuto un grande merito quello di aver posto all’attenzione dell’opinione pubblica la difesa del patrimonio culturale delle nostre città e del nostro paesaggio, ma la conservazione e il restauro – negli anni si è accreditata come l’unica strada moralmente accettabile per preservare le nostre città e i nostri edifici. I modi e le forme della contemporaneità sono stati estromessi dal vocabolario della cultura italiana, almeno da quella istituzionale.
La realtà del divenire continuo degli edifici, che ogni ricerca storica avvalora con i suoi studi, deve aiutare gli architetti a entrare in /quest’alveo della storia con responsabilità e determinazione. Gli strumenti che ciascuno di noi mette a quel punto in campo sono molteplici: non esiste una ricetta a priori, ma solo la consapevolezza che ogni caso è a sé. Come la moderna medicina, la cura è efficace quando essa è mirata a quel soggetto, a quella persona, così ritengo che il progetto di architettura contemporaneo debba realizzarsi caso per caso.
Nel nostro caso per rendere distintivo l’intervento architettonico contemporaneo è stata scelto di generare, attraverso dei veri e propri marchingegni, degli accorgimenti tecnici e architettonici, quali la scomparsa e ricomparsa di componenti di chiusura della loggia, la rotazione dei pannelli della galleria a realizzare configurazioni varie, la chiusura e l’apertura della “nuova rota” la porta d’ingresso al museo, il tutto per garantire quell’ideale di reversibilità degli elementi sovrastrutturali e differenziarli dagli altri interventi, strutturali e permanenti.
La definizione dei materiali è molto importante per Ipostudio: il mattone faccia a vista, il legno a listelli, i muri pietrosi, le lamiere ottonate e bronzate conferiscono alle loro opere eleganti e originali caratterizzazioni. In particolare nelle Residenze di Melara di La Spezia (1990), nella Scuola di Campi Bisenzio (1997), nella Residenza sanitaria di Carpi (2003) e in quella di Ancona (2006), tutte realizzazioni che fanno riferimento ai canoni compositivi della modernità, il mattone è stato impiegato per far sì che le forme siano evocative e simboliche (muratura a barbacane, tessiture grigliate in facciata, “sfondati” di vani finestra, riconoscibili integrazioni volumetriche), che rivelano inventività e accurata ricerca di armonia.Qual è la sua opinione in merito all’attualità del mattone nella costruzione dell’architettura contemporanea?
Il mattone a vista è un materiale senza tempo. Può essere usato come trama e colore quando esso è superficie e come forma e struttura quando esso è sostanza. Poche tecnologie costruttive hanno questa duttilità. La sua contemporaneità risiede nella sua disponibilità a essere usato sia all’interno di un linguaggio architettonico essenziale sia nel suo opposto.
Come diceva Louis Kahn, chiedi al mattone quello che vuole essere, muro o arco, perché questa è la sua natura. A dimostrazione della sua assoluta attualità architetti come Monistiroli, Carmassi, Zermani ne hanno fatto la loro cifra stilistica esplorando il potenziale linguistico del mattone a vista nelle sue articolazioni e creando delle affascinanti architetture contemporanee.
Nei nostri progetti il mattone è spesso, usato in combinazione con l’intonaco, quasi a voler mostrare il contrasto tra la trama e la sua assenza. Due tecnologie senza tempo che ricordano il nostro passato, ma sono il presente dell’architettura contemporanea e forse, ancora per molto tempo, il futuro.
Nei progetti di Ipostudio, la definizione dello spazio pubblico e privato è ottenuta evidenziando la forma degli elementi tipologici: cortili, logge, foggia e disposizione dei vani finestra conferiscono un’impronta particolare agli ambienti e alle facciate.
E’ questo un segno della cura riposta nella ricerca compositiva e dell’attenzione riservata all’architettura del passato? Ugualmente la riconosciuta qualità costruttiva del realizzato rivela l’importanza che è stata riservata alla direzione dei cantieri e alla definizione dei dettagli esecutivi.
Le chiedo di descrivere in che modo la sua specializzazione scientifica e tecnologica e le sue esperienze didattiche, si integrano in una progettazione così attenta agli aspetti formali, tipologici e espressivi dell’architettura. Un architetto italiano della mia generazione, qualunque sia la sua formazione specifica e la sua appartenenza, non può sfuggire al dialogo costante con la storia e con la memoria, non fosse altro che i prodotti della storia, gli edifici, sono ancora per la maggior parte tutti lì, davanti a noi e noi li interroghiamo costantemente per carpirne il senso.
Per citare il grande Massimo Troisi, non si comincia da zero mai, ma si “ ricomincia da tre” sempre. Vi è nel nostro lavoro una ricerca costante e una rilettura critica delle basi teoriche della cultura del moderno. La Storia non è un armadio che si apre per scegliere l’abito giusto da indossare per l’occasione, ma è il luogo della mente dove conserviamo immagini, idee, fatti, modelli in perenne rinnovo e rimescolamento in continua rilettura.
La mia personale formazione ha compiuto negli anni un percorso ondivago fatto di punti e di linee che le congiungono, ma tutte circoscritte in un dominio abbastanza definito: quello della progettazione. Il mettere ordine, l’immaginare, il trovare soluzioni spesso incompatibili tra loro, mai con un atteggiamento precostituito, sempre aperto alla scoperta, questo è stato ed è l’ambito all’interno del quale mi muovo sia nell’insegnamento, che nella ricerca e nella professione.